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Lezioni di felicità dal Bhutan

LUNANA – LA SCUOLA ALLA FINE DEL MONDO

Lezioni di felicità dal Bhutan

Un giovane insegnante del Bhutan moderno, Ugyen, si sottrae ai suoi doveri mentre progetta di andare in Australia per diventare un cantante. Come rimprovero, i suoi superiori lo inviano nella scuola più remota del mondo, nel villaggio di Lunana a 4.800 metri di quota, per completare il suo periodo di servizio. Dopo un cammino di 8 giorni, Ugyen si ritrova esiliato dalle sue comodità occidentalizzate. A Lunana non c’è elettricità, né libri di testo e nemmeno una lavagna. Sebbene poveri, gli abitanti del villaggio porgono un caloroso benvenuto al loro nuovo insegnante, che deve affrontare il difficile compito di insegnare ai bambini del villaggio senza alcuno strumento didattico a disposizione. Preso dallo sconforto, è sul punto di decidere di tornare a casa, ma poco a poco inizia a conoscere la felicità incondizionata degli abitanti del villaggio, dotati di una straordinaria forza spirituale in grado di contrastare le grandi avversità del luogo. Si ritroverà conquistato dall’adorazione che i bambini dimostreranno verso di lui, che lo vedono come una figura fondamentale per la costruzione del loro futuro.

In Lunana – La scuola alla fine del mondo molti spezzano il pane e lo condividono, anche se di pane vero e proprio non se ne vede nemmeno una briciola. In questo piccolo grande film dal Buthan, riuscito ad entrare nella cinquina dei candidati all’Oscar come miglior film straniero (è la prima candidatura nella storia del paese), il pane non è l’alimento che diventa simbolo ma è un’idea che si fa concretamente storia: è un sentimento antico che agglutina gli uomini e li fa essere comunità.

La locandina di "Lunana. Il villaggio alla fine del mondo".

È la coscienza di una solidarietà universale, che abbraccia ogni cosa: mondo umano e natura; il singolo e l’insieme, in una totalità che non è semplicemente somma delle parti ma loro ragion d’essere. Il pane, questo concreto segno di una comunità umana solidale, è tale solo se si spezza e diventa alimento per l’altro.

In Lunana possiamo sostituire la parola “pane” con “yak”, il bovino tibetano che costituisce una risorsa fondamentale nell’economia dei piccoli villaggi che si distendono sulle vallate dell’Himalaya. Lo Yak fornisce il latte. Il letame essiccato dello yak è il combustibile per il riscaldamento domestico. La carne dello Yak macellato può sfamare un’intera comunità. Per questo lo Yak è considerato alla stregua di un animale sacro in Bhutan (dove è praticato il Buddismo Mahayana, simile al buddismo tibetano, ma con insieme di credenze e pratiche uniche, legate a culti animistici come lo sciamanismo e il bon). Profondo e spirituale è il legame tra lo Yak e il suo pastore. Alla struggente bellezza di questo legame è dedicato lo Yak Legpai Lhadar che apre e chiude il film, secondo un movimento circolare.

Profondo e spirituale è il legame tra lo Yak e il suo pastore

Si tratta di un vero e proprio componimento poetico in forma cantata. Il più importante autore bhutanese di questo genere è Ap Chuni Dorji (ancora vivente). Suo è lo Yak Lhadar intonato magnificamente da una giovane allevatrice bhutanese, Seldon. Un’intonazione e una voce che esprimono alla perfezione lo strazio del pastore costretto a macellare il suo amato yak (l’animale da mandare al macello è quello, secondo il rito della tradizione, sul cui collo finisce il lazo lanciato alla cieca sul gregge), e allo stesso tempo la consolazione che lo yak gli offre, rispondendo di non rattristarsi perché anche così loro due resteranno legati per sempre. Lo Yak non viene sacrificato, è lui che si offre in sacrificio.

Se lo Yak è la figura tangibile su cui il film investe il suo capitale ideale e valoriale, il canto ne è la eco immateriale e sonora. Come scritto, il film di Pawo Choyning Dorj si apre e si chiude con lo Yak Legpai Lhadar. Ma poco dopo e poco prima di questo momento canoro, Lunana ne presenta un altro, uguale nella forma (sempre di voce e note si tratta) ma opposto nella sostanza: è l’esibizione del protagonista, Ugyen, a favore di pubblico. Imbracciando la chitarra, Ugyen canta motivi occidentali (nello specifico Have You Ever Seen The Rain dei Creedence Clearwater Revival) sognando di poterlo fare un giorno per platee più grandi, internazionali.

Per lui il canto è un mezzo per raggiungere il successo, uno strumento del sé e per sé. L’unico legame che questo tipo di canto deve generare è, a conti fatti, di tipo contrattuale: lo si offre a qualcuno purché quest’ultimo sia disposto a pagarlo. Tutto il contrario dello Yak Lhadar intonato da Seldon nella solitudine della valle.

Al punto che quando Ugyen la sorprende, la prima domanda che le fa è per chi canta. La spiegazione della ragazza (“Offro questo canto a tutti”, parole che riecheggiano quelle del mistico persiano Rumi: “Io voglio cantare come cantano gli uccelli senza preoccuparmi di chi ascolta o di cosa pensi”) è talmente aliena dal modo di pensare di Ugyen, che l’uomo è costretto a chiedere una seconda volta: “Che cosa intendi per offrire, non capisco!”.

La logica di Ugyen non è quella del dono ma dello scambio: lui usa il canto per intrattenere e guadagnarsi da vivere. Ecco la replica di Seldon:

“Offro canzoni a tutti gli esseri viventi, alle persone, agli animali, agli dei, a tutti gli spiriti della nostra valle. Quando le gru dal collo nero cantano, non si preoccupano di chi le sta ad ascoltare e che cosa pensano. Cantano in offerta. Io voglio cantare così.”

Di nuovo, come nel caso dello Yak che va al macello, il rinnovamento del mondo passa dal primato del dare sul ricevere. È un po’ quello che accade con la preghiera: la vera preghiera non è per ottenere un beneficio immediato (per quanto a volte sia comprensibile e in alcuni casi persino giustificata) ma è una offerta a Dio per la salvezza dell’uomo.

In Lunana, nulla è mai per sé. La pienezza reclama sempre un essere per e con qualcuno. Per usare le parole del Santo Padre nell’enciclica Laudato si’:

“Tutto è connesso”.

Ecco perché uno dei concetti chiave del film è quello di dono. Il dono presuppone un dare gratuitamente, un offrire per offrire. Segue una logica completamente diversa da quella dello scambio.

Anche in questo caso Ugyen, un maestro riottoso che ha smarrito il senso del proprio lavoro, dovrà subire il contrappasso della logica del dono. E anche stavolta a fornirgli questo prezioso insegnamento saranno coloro che in teoria dovrebbero saperne meno: i semplici, i puri di cuore. Una volta giunto a Lunana, è uno dei piccoli scolari che gli è stato affidato a ricordargli, con una battuta fulminante, che

“un insegnante tocca con mano il futuro”.

Quanta responsabilità e nobiltà al ruolo viene riconosciuta da questa semplice frase! Al punto che Ugyen ne rimane veramente turbato. Lui che ha sempre considerato ogni cosa in funzione della propria autorealizzazione, rimane sgomento di fronte alla placida schiettezza di chi è persuaso che cose come il mettersi al servizio degli altri, aiutare le future generazioni, in breve dare il proprio contributo perché il mondo di domani sia un mondo migliore, sono più importanti. Non solo: rendono anche più felici.

Senza scomodare Madre Teresa di Calcutta (“La felicità più grande? Essere utili agli altri”), è Michen, la guida che come un angelo custode si prende cura di Ugyen durante il suo soggiorno a Lunana, a metterlo davanti a questa ovvietà: “Perché cercare la felicità altrove – gli chiede – quando si vive già nel paese più felice al mondo?”.

Attenzione, quella di Michen non è un’uscita dettata da una ventata di patriottismo, ma un fatto: se negli altri Paesi del mondo il benessere è misurato in termini di PIL (Prodotto Interno Lordo), nel Bhutan esiste il GNH (Gross National Happiness).

I progressi qui sono misurati attraverso la qualità della vita e la felicità della gente. I parametri che contano sono la gentilezza, il benessere psicologico, il rispetto per l’uomo, gli animali, la natura.

Aspetti che il film squaderna senza doverli sottolineare, come elementi del contesto al pari delle montagne, dell’erba, delle pietre.

A poco a poco Ugyen capisce. Il suo è un percorso di illuminazione (secondo tradizione buddhista) che passa attraverso vari stadi di conoscenza. Ed è un percorso in salita, che costa fatica, come l’ascesa verso Lunana, a 4.800 metri di quota.

Il film di Pawo Choyning Dorji può essere assunto come racconto parabolico, per la capacità di tessere legami concreti e simbolici al suo interno che rimandano giocoforza a un insegnamento morale e a un disvelamento più profondo del senso del mondo.

Pawo Choyning Dorji, il regista

Il villaggio di Lunana assume metaforicamente la valenza di un altrove spaziale e mitico: è lì, tra le vallate dell’Himalaya, nel posto più improbabile ed essenziale della terra (per la mancanza di comfort, certo, ma anche perché basta a sé stesso) che il maestro “dovrà apprendere” la lezione della vita, imparando come si possa – per citare un altro maestro, un occidentale con un’autentica passione per la filosofia orientale - davvero “trovare l’alba dentro l’imbrunire”.

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