COSTRUIMMO L'OPERA CON I TUBI DA FOGNATURA, DATECI DA UN'IMPRESA LOCALE, UN LUNGO E ARTICOLATO STRUMENTO CHE DAL PICCOLO E ARTICOLATO STRUMENTO CHE DAL PICCOLO DIVENTAVA GRANDE E CHE ALL'INTERNO DELL'AMBIENTE PRODUCEVA UN SUONO QUASI DA SIRENA DI NAVE, CHE RIEMPIVA FISICAMENTE LO SPAZIO.
Intervista a cura di Giacinto Di Pietrantonio
Giacinto Di Pietrantonio: Visto che ci troviamo a Mendrisio presso l’Università di Architettura fondata da Mario Botta di cui tu hai ereditato la direzione, e visto anche che la tua è una lunga esperienza di docenza sia in Italia che all’estero, partirei dal tuo profilo di insegnante.
Riccardo Blumer: Ho iniziato ad insegnare in una strana scuola in cui i miei genitori mi proposero di iscrivermi quando ero ancora al Liceo.
G.D.P.: Di che scuola si trattava?
R.B.: Allora gli ex sessantottini inventarono a Milano un Liceo Unificato. I miei genitori conoscevano questa esperienza e quindi ci iscrissero a questo Liceo. Andavamo a Milano durante la settimana. Per me questo fu molto importante non solo per la scuola, ma anche per il fatto che andavo a Milano, perché non venivo neanche da Bergamo, ma da un paese in Val Seriana, Nembro. Era un Liceo Unificato, ambiente interessante, perché cercava di proporre un approccio interdisciplinare, che non funzionò del tutto per incompatibilità con i programmi ministeriali.
Pian piano, fin dalle scuole elementari passando da una bocciatura all’altra arrivai, sempre recuperando, fino all’Università e alla Laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano. Prima della laurea, contemporaneamente alla frequentazione diurna del Liceo Unificato, la sera frequentavo il Liceo Artistico Comunale di via Panizza, un ambiente pazzesco, divertentissimo.
Da lì capii che questa, della creatività, era la mia strada.
G.D.P.: Perché hai poi scelto di iscriverti al Politecnico e non all’Accademia di Belle Arti?
R.B.: Continuavo a frequentare il Liceo Unificato che era diventato una sorta di “college” residenziale chiamato Schola, mentre studiavo architettura al Politecnico. La Schola si trovava vicino a Varese, in campagna, ed è per questo che ancora oggi continuo a vivere a Varese. Lì, oltre a frequentare le università milanesi, facevamo tutta una serie di attività culturali che andavano da incontri con autori come Maraini, Luzi, Dante Isella, Dalisi e altri che stavano con noi, lavoravano con noi, mangiavano con noi.
G.D.P.: Come arrivavano lì?
R.B.: Erano invitati dagli educatori del Liceo Unificato come Giancarlo Calza, Giuliano Boccali, Paolo Grossi ed altri.
G.D.P.: Una scuola comunque molto interessante e stimolante…
R.B.: Sì, io vivevo nella scuola. Era, appunto, come un college. Facevamo teatro, costruzioni, molte cose.
G.D.P.: Ricordi se qualcuno di questi autori invitati ti ha lasciato un segno particolare?
R.B.: Non un singolo, ma gli incontri nell’insieme. Vivevi una cultura raccontata direttamente dalle persone che la producevano e questo su un giovane ha un valore esponenziale enorme.
G.D.P.: Un’esperienza che hai in qualche modo portato con te anche nell’attuale direzione dell’Università d’Architettura di Mendrisio.
R.B.: Sin dall’università ho sempre tenuto un atteggiamento di promiscuità culturale e, finito il Liceo Unificato, sono diventato prima docente e poi direttore del medesimo. Si può dire che l’insegnamento mi ha segnato da sempre. In tutte le istituzioni in cui ho lavorato e insegno, o diretto ho però sempre mantenuto questo approccio transdisciplinare.
G.D.P.: Per tornare agli studi al Politecnico, ricordi che corsi frequentavi, con chi studiavi?
R.B.: Degli studi al Politecnico ho dei vaghissimi ricordi, ma ricordo il professor Pellegrini, grandissimo teorico dell’architettura e visionario. Mi laureai in composizione con Marco Procinski, che sostituiva Maurice Cerasi. Il Politecnico per me era una vita secondaria che non ha avuto su di me l’impatto degli incontri della Schola.
Dal punto di vista professionale per me è stato l’incontro con Mario Botta quello più importante. Finita l’università andai a lavorare nel suo studio, dove ho imparato il mestiere.
G.D.P.: Come l’avevi conosciuto?
R.B.: Andai semplicemente a bussare alla sua porta. Poi ebbi il sostegno di alcuni amici svizzeri di Bergamo, in quanto a Bergamo c’è una comunità di svizzeri che manteneva contatti forti con la patria. Mi aiutarono per avere il contatto e il passaporto fece il resto.
G.D.P.: Anche per questo motivo Botta è molto legato a Bergamo.
R.B.: Sì, tra l’altro quest’anno facciamo la mostra dei diplomi a Bergamo, avendo fatto lavorare gli studenti su progetti necessari alla città di Bergamo proprio su proposta di Botta. Comunque, quando Botta fece l’Accademia di Architettura di Mendrisio mi coinvolse subito, conoscendo queste mie precedenti esperienze. Ma la mia partenza in questo senso non fu delle migliori.
G.D.P.: Contemporaneamente mantenevi l’attività professionale di architetto?
R.B.: La mantenevo e insegnavo in varie scuole, si può dire che le ho girate un po’ tutte. L’insegnamento per me è sempre stato la parte sperimentale del lavoro, nel senso che facevo a scuola ciò che non riuscivo a fare nella professione.
G.D.P.: Qui in Accademia ho visto che c’è anche un laboratorio di falegnameria Blumer.
R.B.: Non esattamente una falegnameria, un laboratorio interdisciplinare abbastanza attrezzato. L’ultima cosa che abbiamo realizzato nel Teatro dell’Architettura, ultimo edificio costruito, è la mostra di macchine progettate e costruite con gli studenti per un’architettura che può cambiare forma con una relazione di prossimità con l’utente. La mostra si chiama Sette architetture Automatiche, ed è un primo esperimento che vorrei portare avanti. C’è anche un riferimento con l’esperienza del parco giochi progettato a Varese quando insegnavo alla Schola con gli studenti. Per me progettare significa lavorare con loro.
G.D.P.: Di che si tratta esattamente?
R.B.: Mi è sempre piaciuto coinvolgere il territorio, lavorare se pur con studenti, pubblicamente. Allora andai dal Comune di Casciago, vicino Varese, a proporgli questo parco giochi sospeso tra gli alberi. Molto divertente che uno strano tornado un paio d’anni dopo spazzò via.
G.D.P.: Un lavoro di condivisione docente studente?
R.B.: Non solo, perché avevo coinvolto anche gli abitanti in questo progetto laboratoriale estivo. Ho insegnato in questo modo in varie scuole da Milano a Vicenza, da Venezia a San Marino fino a Napoli.
G.D.P.: Come mai a San Marino, in quale scuola?
R.B.: In una nuova scuola di design, perché nel frattempo a livello di notorietà ero cresciuto più che come architetto. Seppur lavoravo molto come architetto, la visibilità l’ho avuta come designer. Pian piano ho iniziato a trasferire queste capacità di metodologia di controllo dei processi su dei temi che non erano neanche di design, ma di riflessione tra uomo e oggetto. Ho iniziato a fare delle scoperte sulla nostra relazione e sul perché abbiamo bisogno di oggetti, pensando che non sia per un motivo funzionale.
G.D.P.:Cosa avevi compreso?
R.B.: A me piace molto quanto dice il filosofo Sini che è l’oggetto a farci essere. Non siamo noi a fare gli oggetti, ma sono loro a farci uomini e donne.
L’oggetto è un’estroflessione del corpo che ti fa esistere. In tal senso l’oggetto più esemplificativo è il tema del giocattolo e della sua relazione con il bambino che serve a farlo diventare qualcos’altro. Ti insegna a relazionarti col mondo, senza potresti non crescere.
G.D.P.: Ricordi il primo oggetto che hai progettato?
R.B.: Allora volevo anche diventare ricco e famoso. Ricordo che già quando lavoravo da Mario Botta scoprii il design per la possibilità delle royalties. Avevo figli e bisogno di soldi. Cominciai con quell'ambizione, avevo il mito della lampada Tizio di Sapper che pare producesse 200 milioni di royalties all’anno. Mi sembrava che se avessi azzeccato l’oggetto: avrei risolto la vita dal punto di vista economico. In realtà è stata una trappola, perché mi sono infilato in un mondo, dove quello che ha successo economicamente vuol dire poco dal punto di vista primario del senso del lavoro.
Questo mi ha anche fatto capire che il design è tutt’altro.
G.D.P.: Cos’altro?
R.B.: Saper progettare un oggetto per cui divento qualcos’altro rispetto a quello che sono. Il design è sempre un atto culturale.
G.D.P.: Hai comunque progettato degli oggetti?
R.B.: Sì, certo. Soprattutto Laleggera.
G.D.P.: Per Alias di Baleri, tanto per tornare a Bergamo?
R.B.: Prima era Baleri, ma quando l’ho frequentata io era passata ad Artemide con Forcolini a Milano. Baleri non c’era già più da molto. Per questo non ho mai conosciuto Baleri se non occasionalmente. Poi, in quegli anni, fu venduta da Artemide a Stauffacher e Fratus che di fatto la conducevano già. Quest’ultimo è di Bergamo e per questo decisero di riportare l’azienda a Bergamo. Laleggera nacque negli anni del ritorno a Bergamo con Satuffacher. In un certo senso era la prima sedia per entrambi.
G.D.P.: Quali le caratteristiche di Laleggera con cui hai vinto il Compasso d’oro?
R.B.: Laleggera parte dal principio che è un oggetto da cui non puoi togliere niente per non mettere in crisi la struttura della sedia. Aveva questo must, il che vuol dire che non era una sedia composita di pezzi che monti assieme per comporre un’unità.
Volevo un corpo, un monolite organico e fu così che mi avvicinai inconsciamente all’esoscheletro.
Scoprii l’esoscheletro degli insetti in natura, e nella tecnica il suo impiego in navi, aerei che sono tutte a esoscheletro. Si tratta di una pelle-struttura, una scatola strutturata.
G.D.P.: Anche la sedia Entronauta agisce con questo principio?
R.B.: Dopo Laleggera sono andato avanti su questa strada bellissima.
G.D.P.: Quindi anche con la sedia Origami?
R.B.: No, L’Origami, no. Tentai delle varianti strutturali, perché volevo abbandonare l’esoscheletro. Così scoprii la struttura reticolare, che è quella interna delle ossa. La struttura a celle aperte e chiuse, fino alla Ghisa, una panca per Alias in ghisa, fusione che ha la possibilità di poter essere fatta con stampi di sabbia che si rompono, per cui ti permettono il sottosquadra. I miei progetti nascono sempre da una ricerca strutturale, di fabbricazione e di tipologia. È molto appassionante. Il design inteso come forma è l’ultimo dei problemi, deve essere conseguente.
G.D.P.: Difatti parli di ricerca strutturale e minimizzazione delle parti.
R.B.: Perché è quel limite oltre il quale non puoi più togliere niente senza mettere in crisi l’oggetto. È lì che nasce la leggerezza, anche se questo l’ho capito dopo.
Riduci al minimo la struttura fin al concetto dell’uovo, che è per la cosa strutturale e simbolica più efficiente in questo senso, ha un rapporto di peso e performance raccontato in modo esemplare dalla cupola.
G.D.P.: “Una forma perfetta anche se fatta col culo” come diceva Munari. O anche l’idea del meno è il più di Mies van der Rhoe.
R.B.: Devo dire che nell’architettura le cose sono un po’ diverse. La mia difficoltà nell’architettura è che le cose prendono un peso proprio importantissimo. In architettura i pesi più grossi non sono quelli portanti. Vale a dire che nel design una sedia che pesa 4 chili deve portare 100-120 chili, nell’architettura è l’inverso, è il peso proprio delle strutture ad essere sempre maggiore di quello che deve portare. Questa cosa ti crea più problemi nel tenere su una soletta che metterci 200 chili su metro quadro di persone. Per fare la stessa cosa che faccio nel design nell’architettura non ho gli strumenti, dove non lo facevo in modo teorico, ma intuitivo. In architettura questo non puoi farlo, perché non puoi costruire intuitivamente un edificio per vedere se poi sta in piedi, devi usare gli strumenti teorici e tecnici che l’uomo ha inventato e sperimentato.
G.D.P.: Ma questo modo intuitivo di progettare ti ha portato anche ad essere collezionato dal MoMA di New York con Laleggera ed Entronauta. Una bella soddisfazione?
R.B.: La gente dà molta importanza a questa cosa, in quanto spesso vengo presentato come quello che ha due sue sedie al MoMA, un museo che ha anche molte cose non interessanti. Comunque essere nella collezione del MoMA mi sostiene da un punto di vista professionale. Non ti cambia nulla dal punto di vista del progetto, perché quello che sai fare non dipende dal vincere o meno un premio.
È come per il Compasso d’oro, in quanti di questi ci riconosciamo? Ti apre delle porte, ma una volta che hai la porta aperta il vero tema è che cosa fai.
G.D.P.: Con le aziende come è il tuo rapporto?
R.B.: Con Alias molto bene, perché aveva una tradizione tecnologica che mi piaceva molto, non badava solo all’estetica. Le altre con cui ho lavorato alcune non ci sono più, altre sono aziende di arredo. Non hanno la cultura del design, ma dell’arredo.
Con B&B ad esempio sperimentavo molto, tiravo il cuoio, lo cuocevo, mi sono divertito senza mai produrre nulla, abbiamo fatto esercizi. Oggi non è possibile.
G.D.P.: E dunque assistiamo ad una crisi dei capitani d’industria avventurosi di una volta?
R.B.: Non mi sembra che ci sia più una grande voglia di sperimentare. Certo, la parte sperimentale nell’immediato non paga, non tiene in piedi l’azienda, però ti tiene allenato per il futuro. L’altro grande problema è l’entrata dei fondi nelle aziende che mettono dei manager che controllano la parte finanziaria e non hanno l’ambizione di riconoscersi nel prodotto e questo ha spostato tutto sul lato economico e di marketing, togliendo tutto l’aspetto della visione. Non c’è più il padrone, quello che dice: "mi vergogno a fare quella roba lì"… e per questo è capace di resistere nel tempo. Una Tizio oggi non l’avrebbero mai fatta, perché nei primi due anni andò male. Oggi manca chi è capace di vendere la villa al mare pur di investire in un prodotto in cui si riconosce, il fondo dopo sei mesi se un prodotto non funziona economicamente, lo cancella.
G.D.P.: È anche per rispondere a questo che hai messo in piedi un gruppo che si chiama Blumerandfriends, di cosa si tratta?
R.B.: Era il mio studio di architettura in cui lavoravano con me altri architetti.
Ho sempre pensato al lavoro come una possibilità per conoscere le cose, perciò non ho mai fatta una cosa uguale all’altra.
Questo è stato il mio handicap come architetto, perché quando metti a punto una tipologia di architettura e la riproduci, questo ti crea una sinergia di abbassamento dei costi importante. Per me ogni volta era la ricerca di una nuova tipologia dalla Sala Gialla de La Scala al bagno di mia zia, o l’allestimento di una mostra. Parto sempre da zero e questo ha dei costi bestiali, che mi ha fatto capire che attraverso il lavoro cerco di fare delle conoscenze che sento di non avere. Blumerandfriends nasce in studio nel momento in cui decido che per conoscere alcune cose staccavo dai progetti i miei collaboratori e li mettevo a fare esercizi finalizzati a questo sentimento della conoscenza. Ad esempio quanto tiene un uovo al carico di compressione. Così ho tolto una persona dal lavoro di studio per far sì che potesse costruire delle macchine per rispondere a questa domanda. Una cosa completamente inutile. Poi dall’uovo è arrivata la pressione atmosferica, dopo il galleggiamento eccetera, eccetera.
G.D.P.: Avete fatto un libro?
R.B.: No, erano degli esercizi, avevamo costruito delle macchine dimostrative contenute in delle valige. Siccome mi chiamavano a fare delle conferenze, pensai all’esempio di Castiglioni che estraeva delle cose da una valigetta quando faceva lezione e conferenze, allora cominciai a dire “potrei far vedere questi esercizi che facciamo in studio”.
Da qui nacque Blumerandfriends diventato come un circo per conferenze. Siccome a quel tempo c’era Pavarotti che faceva Pavarotti & Friends ci ispirammo a quello come ironia, e poi rimase.
G.D.P.: Andavate tutti insieme?
R.B.: Dipende, di volta in volta, individualmente, o in due, in tre. Dipendeva dall’occasione e dalla quantità degli esercizi. Eravamo diventati degli animali da palcoscenico. Facevamo salire le persone dal pubblico a fare gli esercizi con noi. Cercavamo di raccontare la complessità del mondo e il suo equilibrio sottile, ad esempio, che rapporto abbiamo con la pressione atmosferica, cosa che mi ha sempre affascinato e di cui non ci rendiamo conto. Poi iniziarono ad arrivare dei lavori non di architettura, non da allestitori, ma delle vie di mezzo; ad esempio Laboratorio Casabella che mi chiede di fare qualcosa da loro alla Blumerandfriends, perché la Runtal presenta dei caloriferi con dei nuovi colori, eccetera, eccetera.
G.D.P.: Ti chiedevano di scrivere degli articoli?
R.B.: No, degli allestimenti, delle costruzioni. Per loro durante il Salone del Mobile avevamo appunto fatto degli allestimenti dimostrativi per raccontare ad esempio cos’è il colore da un punto di vista fisico. C’erano dei mulini in cui mettevi delle linguette colorate e a seconda del colore il mulino cambiava di velocità, perché il colore ha una capacità di riflessione di luce molto legata all’energia che trattiene.
Abbiamo poi costruito la balena della Triennale per il gioco dei bambini. Sempre per la Triennale abbiamo fatto l’allestimento del Design Museum per Zanuso, in cui progettammo una macchina automatica che sputava dei cartellini con scritto Zanuso stampati in diretta su lamiera sagomata. Poi Blumerandfriends è diventata parte dell’Accademia di Architettura di Mendrisio. A quel punto chiusi quasi completamente l’ufficio, perché non mi interessava più lavorare nel mondo professionale, sempre meno nell’architettura, sempre meno nel design dando più corpo alla scuola, dove sentivo che mi dava la possibilità di andare avanti.
G.D.P.: Come avvenne questo passaggio?
R.B.: Fu Mario Botta a chiamarmi, e dopo un primo anno disastroso cominciai a fare delle cose non necessariamente legate all’architettura come progetti di case, palazzi e via dicendo, ma feci lavorare su materie, linguaggio, geometrie, energia ed incominciò una via che è finita adesso con la mostra Sette Architetture Automatiche e altri esercizi. Per questo l’Accademia divenne un territorio molto favorevole sotto l’ombra di Mario Botta che mi ha chiesto di andare avanti in quella direzione, fino a propormi come direttore (io che non sono necessariamente un architetto). Il vero coraggioso è stato lui.
G.D.P.: Quando partecipasti alla mostra DimoreDesign a Palazzo Moroni, a Bergamo, invitato da Gianluigi Ricuperati, allora come oggi, veniva richiesto di rapportarsi con la storia, con il passato del luogo. Tu avevi portato pochi oggetti, quello che invece si imponeva in modo molto forte erano grandi installazioni, più vicino a quelle che si vedono nelle mostre d’arte. Era una di quelle macchine alla Blumerandfriends?
R.B.: È stata una delle mostre più divertenti a cui ho partecipato. Presentai un grande strumento musicale azionato da una pompa di bicicletta, in quanto in quel periodo avevo scoperto la legge del suono immesso in un tubo, dove più lungo è il tubo più la frequenza si abbassa. Costruimmo l’opera con i tubi da fognatura, dateci da un’impresa locale, un lungo e articolato strumento che dal piccolo diventava grande e che all’interno dell’ambiente produceva un suono quasi da sirena di nave, che riempiva fisicamente lo spazio. Si viveva un rapporto di relazione esperienziale con il suono e il luogo. Era sia architettonico che di meccanica musicale.
Questo è il design, ciò che ti fa capire delle cose.
G.D.P.: Ha mai progettato, o ti è mai stato chiesto di progettare degli strumenti musicali?
R.B.: No, ho lavorato molto con gli studenti sulla voce. A San Marino, decisa una frequenza bassa per i ragazzi, alta per le ragazze, gli studenti avevano il compito di costruire un oggetto che fosse risonanza della propria voce. Un’esperienza bellissima che produsse delle forme incredibili completamente inutili. Il risuonatore meccanico è la scatola in ceramica su cui poggi l’iPad per sentire musica, o la cassa del violino. A Mendrisio questo approccio diventò una grande macchina lunga 18 metri che 70 studenti hanno portato sulle spalle in processione per la via centrale, cercando di far risuonare i muri. Questa fu la prima di molte mise en scene, esercizio pubblico del primo anno. Ora sono stato chiamato con gli studenti da una fondazione di Los Angeles per farne una simile da loro. Sono una forma di moderne processioni.
G.D.P.: Mi sembra di vedere un rapporto con le arti visive, la tradizione del rumorismo futurista, l’Intonarumori di Russolo?
R.B.: Sì, non c’è niente da fare, quelle cose ce le hai dentro. È la nostra cultura, è la memoria etica. Il Futurismo, il Bauhaus ci hanno liberato dal poter fare queste cose senza paura di sbagliare.
G.D.P.: Frequenti mostre d’arte contemporanea?
R.B.: No, poco, anzi ho dei grossi problemi con l’arte contemporanea, perché, esclusa quella concettuale che mi è distante per ignoranza, facendo queste cose con gli studenti e vedendo la loro potenzialità, posso dire che tanta arte contemporanea noi ce la “mangiamo a colazione”.
La scuola è fortissima in questo senso esperienziale. Ieri l’altro ero a Firenze con il coreografo danzatore Virgilio Sieni che realizza movimenti di gruppo e che è in qualche modo parallelo a quello che facciamo qui con gli studenti, tanto che l’ho chiamato di venire ad insegnare qui. È un mondo della danza che mette in gioco la città e che può essere arte. È una danza forte, dove la tecnica è evidente e questo per me è fondamentale. Mi piace l’idea che un concerto debba far suonare insieme 90 pezzi. La musica, come altre arti, è quanto di più complesso l’uomo abbia inventato.
G.D.P.: Un aspetto del tuo essere che va ad integrarsi con il tuo lavoro. In che modo?
R.B.: Nel fatto che il design è uno stare al mondo. Ad esempio gli africani non si siedono, si siedono per terra, la sedia si dice è stata inventata per comodità. Non sono sicuro di questo; è solo un modo diverso di stare al mondo, un atteggiamento culturale. In Africa gli attrezzi li ricostruiscono quando servono, poi li abbandonano. Non hanno la nostra idea di durata e possesso. Ad esempio, quello che mi ha colpito del rinvenimento di Ötzi, la mummia del Similaun nelle Alpi vicino Bolzano, non è il fatto che avesse degli strumenti, ma tutti attrezzi che gli davano la possibilità di costruirli.
G.D.P.: In questo potremmo inserire il tentativo di recuperare l’artigianato fatto da molti designer negli ultimi venti trent’anni?
R.B.: Sono d’accordo. Il design industriale non è più sufficiente. Oggi, nel campo dell’arredamento il design è diventato fare mobili, una volta era un mezzo attraverso cui raccontare e cambiare il mondo. La tecnica di produzione e di commercializzazione è sempre un atto culturale non è fine a sé stessa.
G.D.P.: L’ultimo oggetto progettato, o che stai progettando?
R.B.: Capire la scuola, perché attraverso essa metti in evidenza una visione del mondo. La scuola è il progetto culturale dell’uomo, del futuro, lo strumento più potente di una società.
BIO
RICCARDO BLUMER (1959). Blumer studia architettura al Politecnico di Milano, dove si laurea nel 1982. Dal 1983 al 1988 lavora presso lo studio dell’architetto Mario Botta. Da allora svolge la sua attività di architetto e designer collaborando con aziende quali Alias, Artemide, Desalto, Poliform, Ycami, B&B e Flou, progettando interni pubblici e privati (Teatro alla Scala, Milano) e allestimenti per esposizioni. Come architetto realizza edifici residenziali e industriali, attualmente con l’arch. Tomasina è impegnato per una cantina vinicola in Toscana, un interno in via della Spiga a Milano, un museo e un’installazione in Svizzera. È docente presso l’USI-Accademia di Architettura di Mendrisio, l’Università di S. Marino e l’ISAI di Vicenza. Si occupa di metodologia della ricerca indirizzata agli aspetti creativi con attenzione alle questioni di tipo strutturale nella minimizzazione delle parti in rapporto alle forme della bellezza. Ha elaborato gli Esercizi Fisici di Design ed Architettura. Riccardo Blumer con Matteo Borghi e Adrian Freire Garcia ha costituito il gruppo denominato Blumer&friends con il quale opera attorno al mondo del design con prodotti, installazioni e performance imperneati all’approfondimento della conoscenza dei fenomeni della Natura e del ruolo creativo che essi impongono rispetto all’artificio. Nel 1997 vince il “Design Preis Schweiz” e nel ‘98 il “Compasso d’Oro”. Nel 2010 le sue sedie laleggera per Alias e Entronauta per Desalto sono inserite nella collezione permanente del MoMA di NY, è selezionato dall’Index per il Compasso d’Oro nel settore della ricerca.
PALAZZO MORONI
Il giardino lussureggiante, le ampie sale barocche e la posizione panoramica sulla pianura sono solo alcuni dei tratti che rendono palazzo Moroni un unicum nel panorama bergamasco. L’edificio, risalente alla prima metà del ‘600, venne realizzato su iniziativa del “proto-industriale” serico Antonio Moroni con l’obiettivo di mostrare alla città la ricchezza che raggiunse l’omonima famiglia con l’industria della seta. Non poche furono le difficoltà da superare nella fase di costruzione: venne scavato il colle retrostante, si abbatté il palazzo dirimpettaio e si innalzò l’edificio creando più livelli sovrapposti. Nonostante i vincoli, il risultato ottenuto fu una residenza spettacolare: una dimora sorta dalla forza di volontà e dalla lucida follia del carattere bergamasco che dietro ad ogni impedimento trova la possibilità di superarlo.