I volti del Karabakh Simone Zoppellaro
Quando si parla di Nagorno-Karabakh si pensa inevitabilmente al conflitto che si trascina da oltre due decenni fra Azerbaijan e Armenia. Ma il Karabakh non è solo questo: un drammatico computo di caduti che si aggiorna ogni mese. Forte dei suoi quasi 150.000 abitanti, questa regione contesa rappresenta molto di più. Nonostante la guerra onnipresente, la voglia di normalità è tanta, e questo stato che non c'è - non riconosciuto da alcun paese al mondo - è ricco di sorprese per chi lo visita. Paesaggi mozzafiato, ottimo cibo, volti sorridenti e la ricca eredità di un passato multietnico ne fanno un luogo unico al mondo, cui è impossibile restare indifferenti.
la città di Shushi
Shushi (Şuşa in lingua azera) è fra le città del Karabakh la più dotata di fascino, ma anche quella che meglio coglie le contraddizioni e le ferite di questa terra. Abitata da una maggioranza di popolazione azera in epoca sovietica, fu al centro della battaglia più importante della guerra del Karabakh negli anni Novanta. Degli oltre 15.000 abitanti registrati nel 1989, oggi ne restano meno di 5.000, tutti armeni. La larga parte di loro vive in condomini fatiscenti di epoca sovietica, spesso semi-abbandonati. Molti dei suoi abitanti - al pari degli azeri fuggiti dalla città - sono a loro volta profughi armeni fuggiti dall'Azerbaijan nei primi anni della guerra.

Situata a una decina di chilometri da Stepanakert - autoproclamata capitale dello stato de facto del Karabakh - Shushi porta evidenti tutti i segni di povertà e abbandono di questa terra che da un quarto di secolo non conosce la pace. Eppure, non mancano scorci di grande bellezza, nei volti dei suoi abitanti e negli edifici. In particolare, da segnalare è il quartiere musulmano a sud della città, dove sopravvivono - insieme a minareti e moschee - abitazioni tradizionali di grande fascino, anche se oggi in larga parte abbandonate.

Basta uscire di pochi passi dal centro Shushi per scoprire paesaggi splendidi, dove la natura onnipresente sembra voler lenire le ferite della guerra. Una delle contraddizioni più evidenti di questo conflitto è infatti che l'oggetto del contendere - la regione del Nagorno-Karabakh - ha una densità abitativa bassissima a fronte di paesaggi lussureggianti che spadroneggiano sui pochi insediamenti presenti. In Karabakh, oggi come ieri, ci sarebbe posto per tutti, eppure - dopo l'ultima escalation di aprile, la peggiore da vent'anni a questa parte - la pace appare più lontana che mai.
la guerra e il fronte

Fucile in spalla, stivali immersi nel fango, intere generazioni di ragazzi nel Caucaso del Sud - a meno venti d'inverno o nel caldo torrido dell'estate - consumano i migliori anni della loro vita al fronte. Un'attesa che logora, giorni e mesi infiniti senza che succeda nulla. Poi all'improvviso - quando meno te l'aspetti - capita l'irreparabile. Fra il 2 e il 5 aprile oltre trecento persone da entrambe le parti hanno perso la vita in pochi giorni, in un'escalation che ha lasciato tutti di sorpresa. Fra le zone più colpite dagli scontri, il villaggio di Talish, dove si è combattuto casa per casa.
Case distrutte con il tetto divelto, una scuola colpita da un razzo Grad - vetri in frantumi, quaderni a terra fra i calcinacci e la polvere - questo il paesaggio di Talish, città fantasma dopo gli scontri di aprile. Perennemente sotto il tiro dei cecchini e dell'artiglieria azera, oggi è abitata solo da soldati e volontari. Tutta la popolazione civile è sfollata, soprattutto a Stepanakert. Un grande salone usato per matrimoni e feste, completamente distrutto, è forse l’emblema più doloroso di questa guerra dimenticata.

Da Talish la prima linea del fronte si scorge ad occhio nudo. I giovani soldati che incontro appaiono sorridenti. Scherzano, sono felici di vedere facce nuove: qui non capita spesso. La noia e la solitudine sono nemici non meno difficili da battere di quelli in carne ed ossa, dall'altra parte del fronte. In queste trincee - dove il tempo è congelato, come in una maledizione - la guerra si trascina, nell'indifferenza di tutti, da oltre un quarto di secolo. Un tempo lungo a sufficienza persino per immaginare di dare colore alle pareti delle trincee - per molti, oggi una seconda casa.

In questa guerra dimenticata da Dio, vecchi espedienti compensano la mancanza di equipaggiamenti e tecnologia. File di barattoli di latta vuoti - ciò che resta del rancio dei soldati - pendono ai lati delle trincee: un espediente per scongiurare, con il rumore, possibili incursioni notturne. Si vedono lunga tutta la trincea. Cani lupo hanno la stessa funzione, ma a far la differenza sono soprattutto le mine. Frequenti, indicate da una M maiuscola sul tratto corrispondente della trincea.

A un centinaio di metri da noi, intraviste a occhio nudo nel breve spazio di una feritoia, le linee nemiche. Sono i soldati azeri, giovani diversi per lingua, cultura e religione, ma con esperienze e paure fin troppo simili. Vite che scorrono parallele e che si specchiano, senza mai incontrarsi, in questo conflitto che sembra condannato a non trovare fine. Un dramma per generazioni di giovani nel Caucaso, ma anche un fallimento epocale per la diplomazia europea e la comunità internazionale. Per quanto ancora il mondo si ostinerà a non voler guardare?