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SEMINARE IL FUTURO Dialogo con Salvatore Ceccarelli

Seed Vicious ha dialogato con Salvatore Ceccarelli. Una vita trascorsa tra i contadini del mondo, aiutandoli a tessere quelle conoscenze del seme che avevano smarrito con la nascita dell'agricoltura industriale. Convincere i contadini a diversificare in campo è ancora oggi l'ostacolo più grande. L'intervista racconta del suo ultimo libro in cui si evince che seminare i semi del futuro, è l'unico modo per avere il controllo del proprio seme e, quindi, del proprio cibo. Crediamo che un processo di informazione seria e attendibile, contribuisca a una sana coscienza politica. Il seme è bene comune che, come l'aria e l'acqua, è alla base della nostra vita. "Chi mette le mani sul seme, mette le mani sulla nostra salute". A Seed Vicious piace essere concreti, inseguire chi, con il proprio lavoro, cerca di cambiare il sistema.Nel film "Fortapàche" di Marco Risi, De Rienzo interpreta una delle scene più significative. È quando il suo caporedattore cinico e rassegnato allo stesso tempo gli dice: «Giancà, le notizie sono rotture di scatole, lo vuoi capire?». A noi piace raccontare cose scomode! Buona lettura

Buon pomeriggio. La ringrazio per avere accettato l’intervista. La prima domanda che vorrei porle è come nasce il libro SEMINARE IL FUTURO?

Io e la Dott.ssa Grando siamo stati invitati nel 2018 al Convegno Nazionale di Slow Food a Montecatini. Una persona del Consiglio Nazionale di Slow Food organizzò, in quell'occasione, una seduta parallela in una stanzetta abbastanza piccola e iniziammo a parlare un po' del nostro lavoro: di come l'agricoltura ha effetti sul clima, sulla salute, sul cibo, delle promesse mai mantenute dagli organismi geneticamente modificati, e così via. Fu una cosa abbastanza breve. Non sapevamo che tra chi ci ascoltava, c’era un rappresentante della casa editrice Giunti che ci invitò a prendere un caffè e ci chiese se intorno a queste idee non era possibile costruire un libro. Alla fine, è nato così. Abbiamo iniziato a scambiarci un po’ di idee, prima sul contenuto e poi sugli aspetti della tempistica. Così è nato il libro, che è stato pubblicato nel 2019 come edizione congiunta Giunti e Slow Food.

Martìn Caparròs nel suo libro LA FAME edito da Einaudi, scrive: “Qui [in India], le donne e gli uomini discutono se la Monsanto abbia diritto alla proprietà intellettuale dei semi e un uomo dice di no, perché la Monsanto è un gruppo e un gruppo non è una persona che ha una mente e può produrre un prodotto intellettuale e via discorrendo”. Quali sono gli obiettivi di queste grandi multinazionali?

Fondamentalmente è quello di fare profitti su un bene, come il seme, che in realtà dovrebbe essere un bene comune, perché il seme, così come l'aria e l'acqua, è la base nel nostro cibo e della nostra vita.

Tutto quello che noi mangiamo, compresa la carne, proviene da piante che vengono dai semi, i quali nutrono gli animali che poi saranno trasformati appunto in carne. Quindi il seme, in certe colture, come per esempio frumento, riso e granturco, è il punto di partenza e di arrivo. Seminiamo e raccogliamo semi che poi maciniamo, cuociamo, bolliamo e parte di quel seme viene riseminato e quindi il ciclo continua in modo che si mantiene la diversità.

Noi lo raccontiamo spesso, che nella gestione della biodiversità fatta dai contadini per millenni fino a circa 200 anni fa, dal momento che non c'erano ditte come la Monsanto e nemmeno d‭itte più piccole dove poter comprare del seme, tantomeno ordinarlo on-line, oppure in negozi come i consorzi agrari, il seme se lo doveva procurare direttamente il contadino. Come? Questo lo abbiamo visto anni fa nella parte nord dell'India. Un contadino indiano, che coltivava riso, ci raccontava che prima della raccolta, entra in campo e sceglie le piante che per lui sono le più belle e le più sane. I criteri sono molto vari. Ho usato il plurale, poiché una pianta sola non dà abbastanza seme per l'anno successivo. Siccome il contadino vicino faceva la stessa operazione, tutto questo sistema finiva per arricchire la biodiversità. Pensi che nell'Etiopia rurale, fino a non molto tempo fa, le donne quando si sposano al di fuori del villaggio, portano in dote i semi e quindi tutto questo contribuisce a conservare un'enorme diversità, sia all'interno dei singoli campi, sia tra i diversi campi. L'avvento delle grandi corporazioni, aldilà dei motivi ideologici, ha sostituito a questa diversità, quella 'straordinaria e rassicurante' uniformità che caratterizza il mondo agricolo del nord del mondo. Questa uniformità non ha nessuna giustificazione biologica se non quella di tipo proprietaristico, che consente di brevettare un certo prodotto che non cambia mai, e di appropriarsene. Allo stesso tempo, però, questa uniformità implica anche un enorme vulnerabilità, perché un campo fatto di piante tutte uguali, è facilmente preda di nuovi insetti e malattie, e deve essere necessariamente protetto dalla chimica. Infatti, le grandi corporazioni non vendono soltanto semi, ma vendono anche pesticidi. Siccome da tutto questo proviene il nostro cibo e la nostra salute, noi diciamo che chi mette le mani sui semi, di fatto mette le mani sulla nostra salute. ‬‬‬‬‬‬‬‬‬

Non è un caso se di queste grosse corporazioni, fanno parte anche grosse industrie farmaceutiche. Hanno privato, da una parte i contadini di un bene che hanno sempre gestito in modo autonomo per millenni, e dall’altra hanno privato anche noi consumatori di scegliere cosa mangiare.

Inviterei tutti ad attraversare la Val Di Non, in Trentino e notare gli enormi magazzini dove sono conservate centinaia di mele tutte uguali. E gli OGM e i prodotti delle Nuove Biotecnologie (Nbt) continuano questa filosofia.

Il modo in cui viene gestito il seme, dipende anche dal tipo di agricoltura che noi pratichiamo. Un'agricoltura uniforme non può prescindere dall'essere protetta dalla chimica, inquinando e avendo effetto così sul cambiamento climatico. Perché oggi si parla di un approccio ecologico all'agricoltura? Gli ecologi studiano molto i sistemi naturali, e nello specifico le foreste e i pascoli, sistemi non molto disturbati dall'uomo. Molti di questi studi di ecologia hanno condotto a un messaggio abbastanza semplice, che ormai è ampiamente condiviso: a una maggiore diversità corrisponde una maggiore produttività e una maggiore resilienza, cioè una maggiore capacità di sopportare gli shock come, per esempio, non solo e non tanto il cambiamento climatico di lungo termine, ma i drastici cambiamenti che ci sono da un anno all'altro. Sono questi che devastano il reddito degli agricoltori, rendendo il loro sostentamento molto incerto.

Con la Dott.ssa Grando abbiamo vissuto per trent’anni in Siria, dove gli agricoltori dipendevano da qualcosa che non potevano controllare, la pioggia. Lì i contadini avevano l'usanza di uscire di casa con il fucile e sparare in aria in segno di giubilo quando cadeva la prima pioggia. Avevano anche l'abitudine di non aprire l'ombrello tranne che in caso di piogge violente - evento peraltro molto raro: perché ripararsi da qualcosa che ti porta la vita? E mi sembra che oggi, nel mondo cosiddetto sviluppato, gli agricoltori siano nella stessa situazione. Una volta che loro seminano, non sanno esattamente cosa succederà, se e quando riusciranno a raccogliere e quanto verrà pagato il loro prodotto. Un'enorme incertezza. Cambiando il tipo di semi e utilizzando quelli che nel libro vengono definiti i semi del futuro, una parte di questa incertezza può essere ridotta.

Kermanshah Iran 2010 le prime popolazioni Evolutive

Il penultimo numero di Altreconomia si apre con un dossier su BF, nome della holding quotata alla Borsa di Milano, che con le sue controllate, ha inglobato ormai i segmenti chiave nella filiera agroindustriale italiana, dai semi ai consorzi agrari. Tra i vari azionisti di Bonifiche Ferraresi c'è anche Fondazione Cariplo con il 19,29% cioè la Fondazione che sostiene vari progetti di Economia Solidale. Le chiedo se sarebbe un peccato limitarsi a esprimere lo sdegno e il rammarico, o sognare un mondo senza gli interessi di queste lobby onnivore. È un lusso inutile. Forse lo sforzo da fare turandosi il naso è di lavorare in un certo senso per loro: esisteranno modi di mettere l'industria al servizio del pianeta e non contro di lui?

Quando ho letto questo articolo, che lei gentilmente mi ha girato, sono rimasto anche io molto sorpreso.

Sono personalmente interessato alla Cariplo, perché la Fondazione è molto attenta a un’attività che abbiamo da poco intrapreso con un'organizzazione milanese. Vorremmo mettere in coltura dei terreni nei pressi della primissima periferia di Milano che sono parzialmente abbandonati e inquinati da metalli pesanti. Il sogno è quello di coltivare delle Popolazioni Evolutive di frumento a sette chilometri dal Duomo per poi vendere il pane a Milano, con frumento prodotto a Milano.

Tenga presenta che la Cariplo mi ha invitato a Cernobbio tra i relatori, per introdurre uno dei temi che loro avevano scelto per celebrare il loro trentesimo anniversario. L'argomento era clima ed agricoltura. Non vorrei che, come spesso succede in queste grandi organizzazioni, alberghino due anime. Siccome li dovrò incontrare verso la fine di febbraio e i primi di marzo, perché vorremmo portarli a vedere questi campi seminati dai bambini nella periferia di Milano, domanderò a queste persone chiarimenti sulla loro relazione con le Bonifiche Ferraresi, che sono di fatto una piccola Monsanto. Nell'articolo che mi ha mandato, un'altra cosa che mi ha molto colpito, è il fatturato delle Bonifiche Ferraresi. Si legge di semi, ortofrutta, leguminose, meccanizzazione, concimi, antiparassitari, materie plastiche, carburanti, c'è di tutto. Esattamente come per la Monsanto. La cosa che mi ha molto sorpreso, e in un certo senso allarmato per quanto riguarda il nuovo governo, è un passaggio che il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha fatto al villaggio della Coldiretti, poco dopo essersi insediata come Primo Ministro. Dice: "Noi vogliamo difendere l'ambiente, ma con l’uomo dentro". Non so se la Meloni si rende conto che in un’ambiente dove si usano i pesticidi e ci si mette dentro l’uomo, quell’uomo poi si ammala.

Fondamentalmente il seme, dal quale dipendono in parte l'inquinamento e il cambiamento climatico, influenza il modo in cui si fa l'agricoltura.

Se vendo del seme dal quale nascono piante che debbono essere protette con la chimica, alla fine inquino e il tutto finisce nei nostri piatti, provocando obesità, diabete e malattie ormai dilaganti. L’obesità, è stata ufficialmente dichiarata una malattia dalla rivista medica più importante al mondo, Lancet, e quindi come vede siamo in una sorta di circolo vizioso, ma dal quale si può uscire. C'è un editoriale della rivista Nature di un paio di anni fa, intitolato “Democratizzare i Sistemi Alimentari” in cui è scritto che ”un numero ridotto di attori a livello internazionale controlla cosa si semina, dove si semina, come si coltiva, come si raccoglie, come si trasforma, dove si vende e a che prezzo si vende”.

Un numero ridotto di attori significa, a livello mondiale, all’incirca undici. Probabilmente i nomi li conoscono tutti: Kellogg’s, Nestlè, Walmart e altri. La cosa più interessante di questo editoriale è che, a un certo punto, si chiedeva come potessimo uscire da questa sorta di cappa nella quale non abbiamo più nessuna autonomia?! A questo proposito io e la Dott.ssa Grando nei molti incontri pubblici a cui siamo invitati spesso diciamo in modo provocatorio a chi ci ascolta: ma siete proprio sicuri di essere voi a decidere cosa mangerete questa sera a cena?

Tornando all’editoriale, alla fine dice che c'è bisogno di innovazioni chiave e una di queste è proprio il riappropriarsi del controllo del seme.

Se noi non ci riappropriamo del seme, quello stesso seme sarà selezionato da qualcun altro, per poi essere autorizzato in un certo tipo di agricoltura che prevede l'uso della chimica. Questo seme, quindi, sarà difficilissimo da usare per i contadini biologici o biodinamici, perché adopereranno un seme che non è stato selezionato per quei modo di praticare l’agricoltura. Selezionare il seme per il mondo del biologico, potrebbe aiutare a rendere il biologico più produttivo, perché quel seme si adatterà perfettamente a quel modo di praticare quel tipo di agricoltura e quindi produrrà di più.

Una delle differenze fondamentali fra l'agricoltura biologica/biodinamica e l'agricoltura industriale è l'uso della chimica, ma ancora più importante, è la differenza nei confronti della diversità. L'agricoltura industriale privilegia l’uniformità, perché si basa sul seme nelle mani di poche corporazioni, le quali possono fare grandi profitti, soltanto vendendo grandi quantità di seme della stessa varietà a quanti più agricoltori possibile. Se, per esempio, ci fosse necessità di produrre semi di tantissime varietà diverse, bisognerebbe avere a disposizione impianti colossali per cui si dovrebbe fermare tutto, ripulire e ripartire di nuovo per produrre seme di un’altra varietà. Diventa, quindi, un'attività in cui è molto complicato fare profitto.

Nell’agricoltura biologica e biodinamica, invece, poiché fondamentalmente si sfrutta ciò che la natura può offrire, ogni agricoltore diventa un'entità a sé stante, che potrebbe aver bisogno di un seme molto specifico. Non c'è ditta sementiera, quindi, che può fare profitto vendendo così poco seme di tante varietà diverse.

Per praticare un'agricoltura biologica in cui sia più semplice controllare le malattie, è necessario avere del seme perfettamente adattato e produrre un seme selezionato dall'agricoltore stesso. Il contadino, quindi, deve riappropriarsi del seme ed è quello che noi adesso stiamo facendo non solo in Italia, ma un po' in giro per il mondo.

La difficoltà che noi incontriamo non è solo il convincere gli agricoltori del successo di questo modo di fare agricoltura, perché questo lo dimostrano i fatti, ma superare il danno che ha fatto il passaggio dall’agricoltura contadina a quella industriale, che non ha fatto altro che rompere e interrompere il tessuto sociale, i rapporti che c'erano tra i contadini nelle campagne, in cui tutta una comunità era coinvolta nella raccolta in campo. Ciò è ancora quello che si può vedere in molti campi in Africa e in Medio Oriente.

Nell’agricoltura industriale di tutto questo non c'è più traccia, perché i singoli contadini che stipulano contratti con l'agroindustria sono in competizione tra loro e non più degli amici. Tutto questo ha fatto, poi, scomparire letteralmente dalle campagne le conoscenze sulla conservazione dei semi anche se si tratta di conservazione per pochi mesi, come nel caso dei cereali. Gli agricoltori non sanno più come farlo, perciò stiamo cercando di ricostruire quel tessuto sociale, organizzando dei centri di stoccaggio in cui gli agricoltori portano il loro seme e, con spese abbastanza modeste, lo possono rifare e conservare. E’ ristabilire queste attività da fare in comune che sta diventando l'ostacolo più grosso.

Marsa Matruh_Egitto

Vandana Schiva ha sempre criticato la Rivoluzione Verde. In una sua frase afferma che “nel percepire i limiti della natura come limitazione alla produttività che andavano rimosse, gli esperti americani diffusero in tutto il mondo pratiche ecologicamente distruttive e insostenibili” Come è cambiato il mondo contadino ad oggi?

Io e Vandana siamo molto amici, sono andato per diversi anni nel suo villaggio a fare lezione. Il cambiamento più grosso che io vedo è il passaggio da un rapporto che i contadini avevano con la natura pressoché paritetico e rispettoso, ad uno in cui si proclamano come esseri viventi al di sopra di tutti gli altri esseri viventi che li circondano.

La natura, in questa ottica, poteva essere in qualche modo manipolata, usata e trasformata (vedi gli OGM e Nbt) come un altro modo per fare profitto.

Una storiografa della scienza americana, Deborah Fitzgerald, in un articolo molto bello parla degli effetti sulla conoscenza dei contadidi dell’introduzione degli ibridi di mais degli Stati Uniti, a cavallo degli anni 1925 e 1930; racconta di agricoltori americani che avevano questa straordinaria conoscenza del granturco ed erano in grado di distinguere addirittura sfumature tra bianco perla, bianco amido o bianco avorio, oppure il gusto più o meno dolciastro per cui poteva essere venduto all'industria per produrre snack, o ancora se era idoneo ad altri usi; andavano in campo tenendo per mano il figlio per selezionare le piante più belle e su quelle piante le pannocchie più belle. In quel momento c'era anche una trasmissione di conoscenze da una generazione all’altra.

L’articolo continua raccontando di questo stesso agricoltore che, quando nel Wisconsin arrivarono i primi ibridi, (anche perché in quel territorio nel frattempo ci furono degli anni siccitosi, per cui non c'era altro seme e quello che veniva prodotto nelle stazioni di ricerca ovviamente non era disponibile in grandi quantità, contribuendo così anche alla diffusione degli ibridi), si trovò all'improvviso di fronte a campi in cui le piante erano tutte uguali chiedendosi a cosa servisse tutta la sua conoscenza del mais appresa fino ad allora.

Spostiamoci un momento dai campi di mais negli Stati Uniti, ai cavolfiori della Valdaso nelle Marche. Questa vallata era famosa, tra le altre cose, per un cavolfiore tipico che maturava un po' alla volta; questa maturazione a scalare di questa varietà, i cui semi venivano tramandati da generazione a generazione, ovviamente si presta molto bene ai mercati locali. All'improvviso anche lì arrivano i cavolfiori ibridi molto produttivi e con contratti molto vantaggiosi, che escludevano qualunque rischio, perché il contratto prevedeva comunque un prezzo già al momento della semina. Risultato? La Valdaso fu invasa dallo stesso ibrido di cavolfiore per chilometri. Tutti questi ovviamente essendo geneticamente identici maturavano contemporaneamente e, chi poteva assorbire questa enorme produzione tutta concentrata in brevissimo tempo fu solamente la Grande Distribuzione Organizzata. Questi cavolfiori andavano a finire nei frigoriferi dei supermercati e, magari, dopo sei settimane, il consumatore ignaro, se li ritrovava sul bancone del fresco, come se fosse stato raccolto il giorno prima, ma, in realtà, erano settimane se non mesi, che era irrorato di pesticidi o di altri prodotti chimici. Questo implica anche una responsabilità da parte dei consumatori; nel senso che se smettessimo di comprare queste cose, questa uniformità non avrebbe conseguenze sulla inevitabilità dell'uso della chimica e sul tipo di cibo che arriva nei supermercati.

Yemen

Nel 2014 un articolo del The New York Times raccontava la storia della Harper Brothers Farm, in Indiana. Per liberare i loro campi coltivati con soia ogm resistenti al glifosato e invasi dall’amaranto dovettero nonostante tutto tornare a estirpare le piante invasive a mano. La natura si riprende quello che è suo da sempre? Cosa può cambiare a breve?

Tornando all'esempio dell'amaranto il fenomeno è molto semplice. L’abbiamo visto anche con il Coronavirus; tutti quelli che consideriamo nemici, come i virus, erbe infestanti, i funghi microscopici che causano malattie nelle piante, gli insetti, in realtà, sono organismi viventi e, siccome non sono mai stati utilizzati dall'uomo così come il granturco, il grano, il pomodoro o la barbabietola, sono ancora estremamente variabili, per cui quando, per esempio, nel caso del coronavirus, si parlava di nuove varianti, in realtà quelle varianti non erano nuove, ma probabilmente erano riferite a quel virus che esisteva già in forme diverse.

Guardiamo il caso degli antibiotici. Oggi si sa che i batteri gradualmente sviluppano resistenza agli antibiotici. Ci sono batteri suscettibili e batteri resistenti, che sono perfettamente uguali. Allo stesso modo le infestanti. Se lei va in campo e non utilizza il glifosato, non vede la differenza; solo nel momento in cui usa il glifosato, quelle suscettibili muoiono mentre quelle resistenti che, probabilmente non sono tantissime, restano come appunto l’amaranto. Ecco che ha fatto esattamente il contrario di quello che pensava di fare, cioè ha consentito al suo peggiore nemico, cioè alla pianta resistente al glifosato, di essere la sola a produrre i semi per l'anno successivo.

Negli Stati Uniti dove l’80% della soia, l'80% del cotone e il 90% del mais sono OGM, le vendite del glifosato stanno continuamente aumentando. Quando parliamo di OGM dobbiamo tener presente che, fondamentalmente, parliamo di quattro colture: cotone, mais, soia e colza, che da sole occupano il 99,7% di tutti i 190 milioni di ettari coltivati con OGM e l’87% di queste colture sono state modificate per tolleranza agli erbicidi (in alcuni casi combinata con la resistenza agli insetti, ma, guarda caso, le piante infestanti sono quelle che hanno la maggiore capacità di produrre resistenza. Tutto sembra ricondurre ad un concetto che domina l'industria, che è quello di obsolescenza programmata. Io ti faccio un OGM, ma già so che nel giro di quattro o cinque anni, avrai bisogno di un altro OGM e, nel frattempo, ti vendo anche l’erbicida. Un meccanismo perfetto dal punto di vista di chi vuole farci un business.

Ultimamente tutto il dibattito si è concentrato sul fatto che i prodotti delle nuove tecniche di breeding (Nbt) siano o non siano OGM. Questo è un problema soprattutto dal punto di vista legislativo. Se io ho due ombrelli che non si aprono quando piove a me non interessa che siano tecnicamente simili, ma il fatto che non funzionano. I prodotti di entrambe le tecnologie sono evolutivamente incapaci di adattarsi ad un nuovo organismo. Gli Nbt sono come gli OGM e, prima degli OGM, come le varietà uniformi, un altro modo per utilizzare l'uniformità in agricoltura. Noi siamo di fronte ad un mondo che, dal punto di vista climatico, cambia continuamente e il continuare a perseverare coltivando uniformità, è semplicemente un suicidio e un perfetto affare economico.

Il fatto poi che chi ha scoperto il CRISPR-Cas9 su cui si basano le Nbt abbia preso un Nobel non è garanzia di una scoperta rivoluzionaria. perché io ricordo sempre che, un ricercatore svizzero, Paul H. Muller, scoprì nel 1939 che il DDT uccideva le zanzare e in genere gli insetti. La scoperta fu così clamorosa che nel 1948 gli venne conferito il premio Nobel per la medicina. Non fece nemmeno in tempo ad andare a Stoccolma a ritirare il premio, che le prime zanzare resistenti al DDT erano già comparse. Chi si occupa di erbe infestanti sa che in natura esistono delle piante che naturalmente sono resistenti a sette erbicidi diversi. Se noi continuiamo a spruzzare erbicidi, alla fine queste saranno le sole e sarà difficilissimo sradicarle perché avranno sviluppato una resistenza mostruosa.

Nel suo libro SEMINARE IL FUTURO racconta di una contadina nepalese che da sola riproduce il seme di orzo da un‘enorme diversità di varietà. Non si parla ancora di uniformità, ma di colture che si tramandano da un contadino all’altro. Mescolare per avere abbastanza semi per la superficie desiderata. Esiste ancora in Italia una pratica per rifarsi il seme?

Si, c'era in minima parte e adesso si sta riproponendo, perché una delle ultime cose che abbiamo fatto in Siria, è stata quella di costituire queste tre grandi popolazioni di frumento tenero, frumento duro e orzo con tantissime componenti. Abbiamo scoperto che in questi paesi la tradizione di rifarsi il seme, di scambiarselo, di coltivare varietà non perfettamente uniformi, esisteva ancora, ma rischiava di essere erosa da questa pressione delle grandi corporazioni, che, ovviamente, avendo dei problemi in Europa con l’uso di OGM, si rivolgono ai paesi in via di sviluppo.

In Siria, i contadini abitualmente si rifacevano il proprio seme e gran parte del lavoro che abbiamo fatto, ha consentito a molti agricoltori di acquisire conoscenze proprio su come rifarsi il seme, irritando fortemente il governo Siriano. L’idea dei miscugli evolutivi e delle popolazioni evolutive, in questi campi fatti di piante tutte diverse, fa sì che l’agricoltore abbia tutto l'interesse più per motivi biologici, che per motivi ideologici, a rifarsi il proprio seme, perché se ha del materiale genetico diversificato, ogni anno favorisce le piante che meglio si adattano a quel clima, a quel terreno, a quel modo di praticare l'agricoltura; quella popolazione, così costituita diventa sempre meglio adattata. Viene ripristinata automaticamente un’enorme biodiversità adattata ai diversi territori e perché, quindi, andarsi a cercare il seme altrove?

In Italia, in questo momento, le popolazioni evolutive di frumento tenero sono coltivate probabilmente in circa il 70% delle province italiane. La maggior parte degli agricoltori, anche quelli che hanno creato il proprio miscuglio, ha apprezzato moltissimo la stabilità di produzione da un anno all’altro di queste popolazioni, di questi miscugli, di questo materiale così diversificato. Avendo tutte queste piante diverse, ci sarà sempre una parte di queste che, indipendentemente dal tempo che farà in quel particolare anno, darà sicuramente qualche produzione.

Una caratteristica delle varietà moderne e uniformi, invece, è che hanno dei picchi molto alti di produzione, ma anche dei picchi molto bassi e quindi, per l’agricoltore diventa molto problematico e incerto fare previsioni su quanto guadagnerà in quell’anno o anche fare dei programmi o degli investimenti per il futuro.

Come è incominciato il tutto? Come si è trovato in Siria?

Come sempre succede spesso nella vita, tutto nasce per caso. In realtà, all'università di Perugia, dove mi sono laureato e dove ha avuto inizio la mia carriera negli anni ’70, mi occupavo di foraggere. Successivamente, il direttore dell'istituto per qualche motivo, sviluppò un interesse per l'orzo e mise su un piccolo campo di diverse varietà di orzo, proprio accanto alla serra dove io lavoravo; un giorno mi confessò che voleva fare degli incroci, ma non ci riusciva e quindi mi chiamò e mi chiese di aiutarlo e da lì incominciai a rimanere affascinato dalla bellezza di queste piante e dalla loro diversità. Iniziai anch'io a lavorare sull'orzo in contemporanea con le foraggere per circa 10 anni e, quando alla fine del 1979, partecipai ad un convegno di una società scientifica che esiste ancora oggi e che si chiama Società Italiana di Genetica Agraria, che racchiude quelli che fanno miglioramento genetico e che si occupano di genetica molecolare, l'allora presidente, nel suo discorso di chiusura lamentò la completa assenza di ricercatori italiani nei centri internazionali di ricerca. Di questi centri internazionali fa parte anche quel famoso centro in Messico da cui è partita la rivoluzione verde. A quell'epoca c'erano 18 centri internazionali di ricerca in Messico, in Siria, in India, due o tre in Africa, nelle Filippine. Lui concluse dicendo che se ci fosse stato qualcuno tra i presenti interessato, lo avrebbe dovuto comunicare.

Io di questi centri internazionali non avevo proprio mai sentito parlare, ma quando questo professore scese dal palco e percorse il corridoio tra due file di sedie, di impulso mi alzai e gli dissi che ero interessato e, praticamente, pochi mesi dopo ero in India per un colloquio di lavoro.

Tornai da quella prima esperienza in India, siamo intorno ai primissimi anni ‘80 e, sempre il presidente di questa società, mi chiese di informarlo del viaggio, ma, quando lo chiamai, mi disse che molto probabilmente mi avrebbero offerto il lavoro ma di non accettarlo, perché nel frattempo aveva saputo che stavano bandendo un concorso per un posto da ricercatore sulle piante foraggere ad Aleppo in Siria dal momento che, nel frattempo, lavoravo ancora non solo sull'orzo, ma anche sulle foraggere.

Quindi ad aprile andai ad Aleppo, una città a quei tempi circondata dall'esercito, con posti di blocco praticamente ogni 10 km: era il periodo in cui i fratelli musulmani, un'organizzazione estremista stava cercando di rovesciare il presidente Assad. Io non sapevo assolutamente nulla della Siria, a parte il fatto di essere stata una provincia molto importante dell'Impero Romano, ma di quella prima visita mi è rimasto un ricordo indelebile. Un giorno, insieme alla persona che mi intervistava per il colloquio, ci sedemmo in un campo a fianco della strada leggermente sopraelevata. Questo signore, un tedesco che aveva già vissuto per molti anni in Medio Oriente, aveva portato un po’ di cose da mangiare e dopo essere scesi nel campo, stese una piccola tovaglietta di un metro quadrato, cacciò un po’ di acqua, un po' di pane e un po’ di formaggio, A un certo punto, mentre noi mangiavamo e discutevamo del più e del meno, vedemmo una persona che passava in bicicletta, la quale si fermò, lasciò la bicicletta sul ciglio della strada, scese, ci salutò in arabo, si mise seduto e, senza dire una parola, cominciò a mangiare con noi un pò di pane, un po' di formaggio e a bere un pò di acqua, poi salutò e se ne andò. Io ovviamente, chiesi al mio accompagnatore se lo conoscesse, ma lui mi rispose di no, ma che però si usava condividere quello che si aveva con il prossimo senza porsi troppe domande.

In quel momento ho capito che quello era il mio paese. A settembre dello stesso anno mi offrirono il lavoro, presi moglie e figlie, due bambine che frequentavano la prima e la terza elementare e che vennero scaraventate in una scuola internazionale dove si parlava soltanto inglese e arabo e nel giro di tre mesi parlavano entrambe le lingue meglio di noi.

In realtà partii senza lasciare l'università, ma prendendo un congedo per motivi di studio per due anni, ma a quel punto mi ero letteralmente innamorato del posto, anche perché lì continuavo a fare il lavoro di ricerca, ma le persone che potevano beneficiare di quello che facevo erano dall'altra parte del recinto del campus di questo centro internazionale, che era a 30 - 35 km a sud di Aleppo, lungo l'autostrada che porta a Damasco. Nel novembre dell'82, non potendo più rinnovare il congedo, dovetti ritornare in Italia, ma quasi subito venni coinvolto in un programma del Ministero degli Esteri che prevedeva il finanziamento di progetti di ricerca, in collaborazione tra università e altri istituti universitari italiani e centri internazionali, nel quale poter inserire anche giovani ricercatori e, siccome io a quel punto ero il solo ricercatore italiano che, anche se soltanto per due anni, aveva avuto un'esperienza in uno di questi centri, venni rimandato al Aleppo ad aprile dell'83, sedendomi stavolta al “tavolo dei grandi”, anche perché rappresentavo un paese che portava i soldi. A marzo del 1984 ero di nuovo lì, questa volta per lavorare sull'orzo e dopo un mese di notti insonni, tenendolo nascosto a mia madre per molti anni, mandai un telex con le dimissioni da professore universitario.

Suran_Siria

Oggi si fa molto uso di parole come SOVRANITÁ ALIMENTARE E BIODIVERSITÀ. Tante volte anche senza comprenderne il loro vero significato. Ci dia lei una definizione.

La sovranità alimentare e semplicemente il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo. È quindi il diritto di una persona di decidere che cosa coltivare o mangiare.

Nel caso di un contadino o di un consumatore, decidere cosa coltivare e cosa mangiare, è la conseguenza di democratizzare i sistemi alimentari in cui le persone ritornano a essere padrone di decidere che cosa mangiare, che cosa seminare, come coltivarlo: questo è il concetto del contadino che ritorna ad essere autonomo.

Questo concetto prevede la biodiversità. Il contrario di sovranità è un'agricoltura di tipo industriale, in cui ti portano i semi e i pesticidi e, alla fine, tutti coltivano le stesse cose, perché quello è il modo in cui chi produce i semi riesce a fare profitti: implicito nel concetto di sovranità alimentare c'è quello di biodiversità e di riappropriarsi del controllo del seme.

La biodiversità può assumere forme diverse: ci sono degli agricoltori che in 14 ettari coltivano 15 colture diverse, fra alberi da frutta, piante da orto, cereali, eccetera. Quello che mi meraviglia e’ quanto sia facile capire l'importanza di questo concetto negli investimenti finanziari, mentre rimane così difficile da applicare nel settore del cibo.

Non c'è bisogno di formule matematiche per capire che un portafoglio diversificato comporta meno rischi di un portafoglio molto ristretto e, fondamentalmente, quello che noi proponiamo, è applicare questo concetto in agricoltura.

Quindi diversità significa specie diverse, significa varietà diverse all'interno della stessa specie.