Selma rievoca la storica marcia che il 7 marzo 1965 portò migliaia di manifestanti afroamericani in pellegrinaggio dalla cittadina dell’Alabama alla capitale dello Stato, Montgomery (partirono in otto mila, arrivarono in venticinque mila).
Guidata dal pastore protestante Martin Luther King, fu la prima delle tre iniziative pacifiche volte a rivendicare il diritto al voto della comunità afroamericana. Un risultato che sarebbe stato conseguito cinque mesi dopo con l’adozione e la ratifica da parte dell'allora Presidente Lyndon B. Johnson del Voting Rights Act, uno dei risultati più importanti ottenuti dal Movimento per i diritti civili, dopo l’abolizione della segregazione razziale.
Una conquista passata attraverso il pesante tributo di sangue pagato dai neri americani, in una lunga e dolorosa vicenda di discriminazione, intolleranza e razzismo che sembra non essersi esaurita neppure oggi.
La stessa marcia del 7 marzo, pur svolgendosi in forma pacifica, venne macchiata da episodi di brutalità da parte dei poliziotti bianchi nei confronti del popolo in marcia (tra cui vi erano anche bianchi solidali alla causa), al punto che quella giornata sarebbe passata alla storia come la “domenica di sangue”.
Fin qui la cornice storica. La regista, Ava DuVernay, esponente di punta del cinema black statunitense sulla scia di maestri come Spike Lee (il consiglio è di recuperare su Netflix anche il suo magnifico documentario XIII emendamento, incentrato sul razzismo del sistema di giustizia penale degli Stati Uniti), con questo film è stata la prima donna afroamericana ad essere nominata per il Golden Globe per il miglior regista e l'Oscar al miglior film. Il suo è un lavoro di ricostruzione minuziosa, non tanto rispetto al dato cronachistico (molte le libertà che la sua sceneggiatura si prende), quanto nel riuscire a captare il sentimento del tempo e le atmosfere. Si avverte per tutta la durata del film una tensione fortissima, un senso di vulnerabilità, di esposizione, con cui la DuVernay intende far rivivere alla spettatore la sensazione che gli afroamericani di allora dovevano provare costantemente.
L’incipit è emblematico da questo punto di vista: uno dei riti più rassicuranti in assoluto, la famiglia che si prepara alla celebrazione della messa domenicale, viene letteralmente fatto “esplodere”, a seguito di un attentato dinamitardo. È una sequenza molto cruda, vuoi perché costruita a partire dal punto di vista di una bambina, vuoi perché “non preparata” stilisticamente: la DuVernay compone il quadro in maniera ordinata, privilegiando i colore caldi, confortanti, di modo da intensificare l’effetto di deflagrazione della bomba. È un approccio compositivo che domina interamente il film. Un approccio che potremmo definire “classico”, da vecchio cinema in technicolor. La morbidezza delle luci, la saturazione del colore, la teatralità scenografica, la geometria interna al quadro, il primato della scrittura, la scansione a orologeria di scene madri e intermezzi, scene di massa e interni. È un lavoro che punta dichiaratamente al grande pubblico, lo vuole attrarre e poi colpirlo con la forza di un cazzotto.
L’altro espediente utilizzato da Ava DuVernay è la focalizzazione su Martin Luther King: Selma è a tutti gli effetti un biopic non dichiarato sul leader dei diritti degli afroamericani. Il reverendo King, impersonato in maniera mimetica da David Oyelowo, è il protagonista indiscusso, il baricentro dell’azione e il punto di riferimento dello spettatore. King/Oyelowo scandisce la ritmica interna di Selma attraverso il suo muoversi continuo, da un punto all’altro dello spazio scenico e dei punti di snodo della Storia, con nervosa compostezza e il vibrare di una parola che sembra sgorgare da un punto imprecisato, fuori di lui. È una parola che modifica il mondo, eccedendo anche il suo strumento: la voce e il corpo di King. È fondamentalmente parola profetica.
Significativo il trattamento che Ava Duvernay riserva al personaggio: da un lato lo pone al centro del film, dall’altro ne smaterializza la figura, rifiutandone l’agiografia. King è, fuor di retorica, un uomo con tutte le sue fragilità. Un adultero. Un politico disposto al compromesso. Un personaggio, non un santino (prendano appunti gli sceneggiatori delle fiction devozionali!), in cui ciascuno può identificarsi. Al contempo, mentre lo “opacizza” riportandolo a umane bassezze, ne illumina la voce, che si alza e risuona più nitidamente proprio grazie al gioco dei contrasti.
Contrasti e polarità. Il film si muove lungo un asse immaginario positivo/negativo, sul quale ripone accadimenti e caratteri. Sguarnisce le estremità giocando sulla compresenza di luci e ombre nei personaggi che calcano la scena. Se di King abbiamo detto, una menzione speciale come controparte merita “l’ambiguo” Lyndon B. Johnson (l’ottimo Tom Wilkinson), protagonista con il primo di trascinanti schermaglie dialettiche.
Curioso come un film che mette tra parentesi la retorica del mezzo busto, dell’iconismo storico e degli eroi, scelga di affidare la propria tensione interna soprattutto alla parola, di cui Selma conosce a fondo le potenzialità empatiche e drammaturgiche, collocandosi nell’alveo del grande cinema “retorico” americano.
La parola è azione. Anche quando è compromesso. È molto bello il modo in cui la Duvernay pensa l’intero film come a un’operazione di montaggio tra il dire e il camminare, tra le parole (di King, ma non solo di King) e la marcia. Sembra di leggere Pascal quando scrive che “senza la voce dei profeti, non sapremmo chi ci ha messo in quest’angolo di universo, che cosa siamo venuti a fare e che cosa diventeremo morendo”. Profezia è del resto parola che non solo anticipa ciò che viene dopo ma spinge in avanti. È visione e propulsione. Ed è questa parola ispirata da e assetata di giustizia che Selma celebra e che ne spiega la potenza fascinatoria e l’eco nostalgica, l’evocazione e il fantasma. Il film non cerca l’immagine mancante di quel decisivo passaggio storico, come si potrebbe ritenere da un’opera cinematografica: i fatti sono appurati, hanno nomi, date, intenzioni. Non c’è nulla da cercare lì in mezzo. È la parola che manca. La parola che Selma fa vibrare forte perché la si possa risentire anche oggi, ancora. Selma non parla del passato che risuona ma al presente che non ha voce.
Credits:
Selma